Pace nella Terra promessa?

Note sul rapporto arabi/israeliani

Pubblicato su Libertà di educazione, n.1 [1999].

Capire il rapporto    tra lo stato di Israele e gli arabi significa inquadrare tale vicenda dentro un ben più ampio e complesso quadro, di tipo storico e religioso-culturale. Si tratta fondamentalmente del problema di come conciliare l’esigenza di una patria per un popolo, quello ebreo, privatone dal 70 d.C., con l’altrettanto giusta esigenza di un altro popolo, quello arabo-palestinese, di poter restare nella terra in cui abita da secoli. Ma non si capirebbe fino in fondo la specificità del caso israeliano-palestinese, se lo si riducesse a un problema di convivenza tra popoli, dello stesso tipo di molti altri casi al mondo (si pensi in generale alla convivenza tra coloni e popoli colonizzati, ad esempio negli USA tra bianchi e pellirossa, o in Sudafrica tra bianchi e neri). Qui infatti il problema    è enormemente complicato dal fattore religioso: prima di tutto perché la Palestina si configura come una terra di tipo speciale, carica di valenze simboliche che toccano le corde più intime delle tre maggiori “religioni” del mondo, Cristianesimo, Ebraismo e Islam. Per le tre grandi "religioni" si tratta di una Terra Santa, luogo privilegiato dell’incontro tra il Mistero e l'uomo. In secondo luogo la maggioranza dei palestinesi, di fede mussulmana, proprio in virtù di tale credo, guarda agli Ebrei con un’ottica particolare, di forte ed aspra ostilità. Il che contribuisce a rendere, agli occhi della maggioranza degli arabo-palestinesi, la presenza ebraica in Palestina particolarmente indigesta.

Me perché allora gli Ebrei tengono tanto a vivere proprio in Palestina? È bene partire dall’inizio:

L’attuale processo di pace si configura come la soluzione definitiva del conflitto arabo-israeliano? Se possiamo azzardare una ipotesi diremmo: no. Una pace vera e durevole c’è solo dove c’è un contesto di reciproca accettazione, di favorito dialogo culturale ed economico fino a giungere a una integrata convivenza. Come non sembra stia accadendo, come prova il perdurante presupposto di una necessaria separazione tra i due “popoli”, per cui i palestinesi devono accontentarsi di briciole, e l’estremismo resta forte, da entrambe le parti, mentre la presenza che più potrebbe rivelarsi equilibratrice e propizia al dialogo, quella dei cristiani, continua ad assottigliarsi.
Se il problema fosse solo politico una soluzione non sarebbe così    difficile. Ma forse il problema    è più profondo, implicando un difficilmente componibile scontro tra i due monoteismi non-cristiani. Forse la penosa odissea del    popolo eletto non è ancora giunta all’epilogo. E forse non vi giungerà che al termine della storia.

note


[1] Esiste insomma una legittimazione storica della “pretesa” ebraica di considerare la Palestina come la propria terra.

[2] E questo trova in qualche modo un punto di appoggio nelle parole di Cristo stesso, che profetizza tale evento. Cfr. ad esempio Luca, 23: “Gesù, voltandosi verso le donne, disse: "Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. [29]Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. [30]Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci! [31]Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?". Queste parole di Gesù potrebbero riferirsi in generale al genere umano, ma sembra che esse vadano prima di tutto riferite al popolo a cui appartengono le “figlie di Gerusalemme”, perché con tale appellativo il Figlio di Dio si rivolge loro.

Lo stesso Paolo propone una lettura della storia del popolo ebreo in chiave appunto escatologico-spirituale: gli eventi che riguardano il popolo eletto meno che per qualsiasi altro popolo vanno letti in chiave naturalistica, ma sono legati misteriosamente, in modo del tutto speciale, a un disegno provvidenziale che vedrà l’antico popolo dell’Alleanza convertirsi a Cristo proprio negli ultimi tempi.

Si veda in particolare Romani, 9/11. Cfr. ad esempio, nell11 cap.: “[25]Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. [26]Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto”.

[3] Il primo congresso sionista internazionale è del 1897, ma già nel 1890 Moses Hess aveva scritto Roma e Gerusalemme, rivendicando il diritto degli ebrei ad una patria.

[4]È noto in effetti che l’Inghilterra, come gli Stati Uniti, è un paese tra i più amici del popolo ebreo.

[5] Spinti dal crescente vento di antisemitismo che soffia su un’Europa sempre meno cristiana, protetti dagli inglesi, legittimati dal punto di vista teorico dal sionismo, che vede nel ritorno alla terra promessa un evento benedetto da Dio, molti ebrei riescono ad acquistare terreni dagli arabi (vincendo la loro diffidenza anche in forza del convincente potere del denaro, tanto più appetibile presso un popolo decisamente meno ricco).

[6] Eccezione fece la loro, parziale, sconfitta da parte degli egiziani nella guerra del Kippur del 1973, il cui risultato ultimo fu il ritiro israeliano dal Sinai, in cambio peraltro di una stabile pace con uno dei più forti paesi arabi confinanti (pace di Camp David, firmata nel 1979).

[7] Ormai soltanto debolmente appoggiati dagli stessi paesi arabi più importanti, sempre più legati da un patto di ferro con gli Stati Uniti (basti vedere il loro appoggio, pesante e determinante, alla guerriglia dei secessionisti mussulmani del Kossovo).